giovedì 22 gennaio 2009

Il tarlo del cassettista



Se, tempo addietro, avessimo ricevuto in eredità 100 azioni delle Assicurazioni Generali avremmo fatto bene a venderle, subito dopo averle ricevute, per comperare in un insieme molto più ampio di titoli?

Si potrebbe affermare che per rispondere occorrerebbe valutare la differenza tra i due investimenti.


Ecco allora una tabella con i ritorni (approssimativi) ottenuti comperando e tenendo fino ad oggi - dalla data indicata – l’indice Comit o le Generali (con il reinvestimento dei dividendi).






Ragioniamo sulla tabella: sarebbe stato meglio tenere le Generali nel 1985 e nel 2005 ma l’indice ha fatto meglio nel 1990 e nel 1995.
Un pareggio perfetto. Non c’è modo di venirne a capo...


Io avrei comunque venduto.

Si potrebbe dire: ”E’ saggio perché a priori non si sa se un titolo farà meglio o peggio del mercato: così ci si assicura un rendimento medio”.

Vero, ma non è ancora la risposta che volevo, anche se si avvicina alla ragione importante, che introduco con un aneddoto.

Un giorno venne nel mio studio una persona molto semplice, ma scaltra, che per 30 anni aveva comperato ogni sorta di titolo azionario. Dopo una lunga operazione di riordino delle carte abbiamo appurato che il suo patrimonio consisteva in circa 3 miliardi di lire (era il 1998) e aveva anche svariati certificati azionari di società “estinte”.

Si può intuire adesso perché venderei l’eredità: per evitare il rischio di estinzione del mio investimento. Infatti spalmando - anche in modo naif - il capitale investito su un numero ampio di titoli si riduce l’impatto dei fallimenti.

Ecco svelato anche il motivo della diatriba tra chi sostiene la convenienza o meno dell’investimento in azioni nel lungo termine: un investitore “ingenuo” al tempo t0 acquista l’”universo investibile”. Compra cioè tutte le azioni, anche quelle che falliranno in futuro, perdendo così parte del capitale.

Effettivamente, senza metodo, l’investimento azionario di lungo termine potrebbe non essere così redditizio.

Se invece si investe in un indice borsistico, si comperano solo azioni con certe, ben determinate, caratteristiche.
Nel tempo potranno esservi ingressi ed uscite dal paniere, ma se l’indice è ben strutturato difficilmente possiederemo azioni che falliranno, o al peggio l’impatto sarà mitigato, assicurando la sopravvivenza dell’investimento.

Da notare che il “problema dell’estinzione” è universale. Lo hanno sperimentato dolorosamente tutti coloro i quali abbiano comperato obbligazioni Argentina, Lehman, Parmalat in percentuali superiori all’1 o al 2 sul patrimonio totale.
Non solo, il nonno ci ha lasciato una casa perché non è stata bombardata dagli americani.

Investire (in case, in obbligazioni, azioni, arte) è rischioso per chi non può comperare almeno 100 unità differenti di quell’investimento.


Per concludere, una domanda.

Tutti sanno che lo S&P500 è l’indice di Borsa americano delle maggiori 500 aziende.
Non tutti sanno però quante sono le società che erano presenti 50 anni fa e che lo sono tuttora.

Provate a immaginare un numero.

Sono circa cinquanta. Cioè in 50 anni l’indice ha visto uscire di scena il 90% dei suoi componenti. Stupefacente vero?

Nessun commento: