venerdì 30 gennaio 2009

Darwinismo all’italiana



Anni fa una pubblicità bancaria recitava che un certo istituto era stato fondato “quando il Sole girava ancora intorno alla Terra”, facendo riferimento alla propria plurisecolare esperienza.

La questione che allora pongo questa settimana è: “Le istituzioni finanziarie più antiche sono migliori di quelle più giovani?”.

In effetti la logica suggerisce che la selezione naturale affina le caratteristiche più adeguate per prosperare: una banca dalla lunga storia dovrebbe aver sviluppato maggiori capacità di sopravvivenza e quindi probabilmente anche una miglior qualità del servizio verso clientela.

Ma la selezione naturale è stata libera di agire sulle banche, almeno in Italia?

Che gli Istituti di Credito italiani da circa un secolo siano “stabili” per volontà politica è, fino ad oggi, un fatto.

Non è un caso, allora, che i più non ricordino che il Banco Ambrosiano nei primi anni 80 del secolo scorso ha avuto vicissitudini romanzesche e che i correntisti ne sono usciti indenni solo grazie alle protezioni statali.

Ma ammesso e non concesso che l’anzianità di servizio sia un indicatore affidabile per dimostrare la stabilità futura di un depositario, è sensato usarla anche come indicatore dell’oculatezza dei suggerimenti di investimento?

Se un mercato è rigidamente regolamentato ma contemporaneamente non è adeguatamente vigilato per evitare “cartelli” tra gli operatori, questi ultimi godono di una rendita di posizione e sono disincentivati a farsi concorrenza.

In tali condizioni l’attività di “consulenza” non è altro che un escamotage commerciale che copre l’attività di vendita.

Quindi la risposta non risiede tanto nella “quantità“ di storia che si può esibire quanto nell’efficienza dell’organo di vigilanza della concorrenza.

Ma non bisogna fare di ogni erba un fascio. Ci sono categorie di intermediari che non sono state protette e per le quali la sopravvivenza nel tempo potrebbe diventare un parametro più significativo.

Prendiamo per esempio gli Agenti di Cambio in Torino. Nel 1963 ce ne erano una sessantina.

Di questi, o meglio di strutture che proseguono l’attività del fondatore in modo indipendente rispetto al sistema bancario, oggi ce ne sono due o tre.

Niente male come selezione naturale, migliore di quella dello S&P500 visto la settimana passata…

Proseguendo quindi nell’utilizzo della logica darwiniana si può affermare che è più probabile trovare tra gli intermediari “non protetti” e con maggiore anzianità quelle caratteristiche che vengono da taluni imprudentemente vantate.

La morale che si può trarre è relativa al funzionamento della psiche umana. Fa fatica a discriminare ed è relativamente facile contrabbandare un concetto falso “agganciandolo” ad uno vero.
E questo Madoff lo sapeva benissimo.

giovedì 22 gennaio 2009

Il tarlo del cassettista



Se, tempo addietro, avessimo ricevuto in eredità 100 azioni delle Assicurazioni Generali avremmo fatto bene a venderle, subito dopo averle ricevute, per comperare in un insieme molto più ampio di titoli?

Si potrebbe affermare che per rispondere occorrerebbe valutare la differenza tra i due investimenti.


Ecco allora una tabella con i ritorni (approssimativi) ottenuti comperando e tenendo fino ad oggi - dalla data indicata – l’indice Comit o le Generali (con il reinvestimento dei dividendi).






Ragioniamo sulla tabella: sarebbe stato meglio tenere le Generali nel 1985 e nel 2005 ma l’indice ha fatto meglio nel 1990 e nel 1995.
Un pareggio perfetto. Non c’è modo di venirne a capo...


Io avrei comunque venduto.

Si potrebbe dire: ”E’ saggio perché a priori non si sa se un titolo farà meglio o peggio del mercato: così ci si assicura un rendimento medio”.

Vero, ma non è ancora la risposta che volevo, anche se si avvicina alla ragione importante, che introduco con un aneddoto.

Un giorno venne nel mio studio una persona molto semplice, ma scaltra, che per 30 anni aveva comperato ogni sorta di titolo azionario. Dopo una lunga operazione di riordino delle carte abbiamo appurato che il suo patrimonio consisteva in circa 3 miliardi di lire (era il 1998) e aveva anche svariati certificati azionari di società “estinte”.

Si può intuire adesso perché venderei l’eredità: per evitare il rischio di estinzione del mio investimento. Infatti spalmando - anche in modo naif - il capitale investito su un numero ampio di titoli si riduce l’impatto dei fallimenti.

Ecco svelato anche il motivo della diatriba tra chi sostiene la convenienza o meno dell’investimento in azioni nel lungo termine: un investitore “ingenuo” al tempo t0 acquista l’”universo investibile”. Compra cioè tutte le azioni, anche quelle che falliranno in futuro, perdendo così parte del capitale.

Effettivamente, senza metodo, l’investimento azionario di lungo termine potrebbe non essere così redditizio.

Se invece si investe in un indice borsistico, si comperano solo azioni con certe, ben determinate, caratteristiche.
Nel tempo potranno esservi ingressi ed uscite dal paniere, ma se l’indice è ben strutturato difficilmente possiederemo azioni che falliranno, o al peggio l’impatto sarà mitigato, assicurando la sopravvivenza dell’investimento.

Da notare che il “problema dell’estinzione” è universale. Lo hanno sperimentato dolorosamente tutti coloro i quali abbiano comperato obbligazioni Argentina, Lehman, Parmalat in percentuali superiori all’1 o al 2 sul patrimonio totale.
Non solo, il nonno ci ha lasciato una casa perché non è stata bombardata dagli americani.

Investire (in case, in obbligazioni, azioni, arte) è rischioso per chi non può comperare almeno 100 unità differenti di quell’investimento.


Per concludere, una domanda.

Tutti sanno che lo S&P500 è l’indice di Borsa americano delle maggiori 500 aziende.
Non tutti sanno però quante sono le società che erano presenti 50 anni fa e che lo sono tuttora.

Provate a immaginare un numero.

Sono circa cinquanta. Cioè in 50 anni l’indice ha visto uscire di scena il 90% dei suoi componenti. Stupefacente vero?

giovedì 15 gennaio 2009

Ho visto hedge fund in fiamme... (Parte seconda)




Mi ricollego al post della fine di ottobre per una imprevista seconda parte.

Citadel Investment Group, una grande società di gestione di fondi hedge ha annunciato da circa un mese di aver bloccato i riscatti almeno fino a marzo 2009.

E pare non essere un caso isolato. Cioè molti hedge hanno modificato i regolamenti, allungando i tempi di attesa del rimborso fino a 6 mesi dalla domanda.

Così oggi gli investitori degli hedge
- fronteggiano la sofferenza per le prestazioni ottenute;
- nutrono preoccupazioni sulla solidità del proprio fondo, visto che molti fondi di fondi hanno investito anche in hedge del signor Madoff;
- si trovano nell’impossibilità di fare cassa velocemente;
sono cioè nella condizione ideale per desiderare di uscire ad ogni costo.

La situazione potrebbe diventare drammatica perché potranno verificarsi nuovi casi di crisi di liquidità indotti proprio dal dilatarsi della tempistica dei riscatti sugli hedge.

L’informazione implicita contenuta in questa notizia è che vi sono una certa quantità di fondi hedge che non hanno ancora venduto e sono pronti a farlo non appena ne avranno l’occasione, cioè alla prima risalita del mercato. Inoltre se in questi giorni vi fosse un forte deflusso da quel comparto ne risentiremo in tarda primavera.

Se ipotizzassimo poi che la massa di vendite da eseguire sia considerevole non sarebbe irragionevole pensare che possa fermare almeno temporaneamente un eventuale rimbalzo dei mercati, innescando la necessità di ulteriori manovre da parte della Politica.

Suppongo che uno dei compiti del Presidente Eletto sarà verificare la quantità di munizioni ancora in mano agli orsi, ovvero quanto gli hedge devono ancora vendere.
Senza aver ridotto o regolamentato la loro potenza di fuoco i mercati non potranno mettersi stabilmente al rialzo.

Se le mie ipotesi saranno verificate potremmo assistere all’apparente paradosso che il governo entrante potrebbe al limite soccorrere gli hedge fund, a differenza di quanto fatto dall’uscente amministrazione; però questa manovra, che non è politicamente di buona visibilità, se si dovesse fare, facilmente la si farà in sordina.

giovedì 8 gennaio 2009

Orsi e tori



Qualcuno forse non sa che ci potrebbe essere più di una ragione per la quale gli acquirenti dei mercati finanziari vengono detti tori, mentre i venditori sono detti orsi.

L’origine e la datazione delle espressioni sono molto incerte, ma già alla fine del 1800 i termini erano presenti nel dizionario inglese di Oxford.

Sulla nascita delle espressioni vi sono molte ipotesi, tutte ugualmente buone, e probabilmente i vocaboli sono stati usati in ciascuna di queste accezioni fino ad integrarsi nello slang finanziario.

Ecco le ipotesi che conosco:

Nel periodo a cavallo tra il Medio Inglese e l’Inglese Moderno “bulla” era il termine per indicare il contratto, l’odierno “bill”: quindi quando un mercato saliva, i detentori di “bulla” (cioè chi aveva già comperato) erano favoriti, mentre quando il mercato scendeva le controparti dei “bulla”, cioè i “bearers” erano avvantaggiati.

Ma non è l’unica spiegazione:

Bull è anche una contrazione di “bully” nell’accezione obsoleta di “eccellente”.
Inoltre con riferimento agli animali, si pensava (erroneamente) che il toro fosse più veloce di un orso e quindi che potesse essere usato come icona di un trend rialzista “feroce”.
Occorre poi notare che gli orsi vanno in letargo, a differenza dei tori.
C’è poi chi sostiene che si potrebbe cogliere un riferimento alle due grandi famiglie di banchieri rivali, quelle dei Barings e dei Bulstrodes.

Infine quasi tutti sanno che l’orso colpisce dando zampate dall’alto verso il basso mutuando graficamente un movimento ribassista mentre il toro incorna dal basso verso l’alto.

Una semplice osservazione viene spiegata in modo soddisfacente in molti modi differenti e tutti potenzialmente validi.

Una delle morali che si potrebbero trarre da questo post è relativa alla sostanziale inutilità delle “spiegazioni” dei giornalisti economici, che si affannano a legare i movimenti di mercato ai fatti di cronaca.