mercoledì 11 settembre 2024

Il Piano di Draghi: Rilancio della Competitività Europea tra Debito e Dirigismo Economico


Il piano di rilancio proposto da Mario Draghi, che prevede investimenti annuali per 800 miliardi di euro, solleva questioni cruciali per il futuro dell'economia europea ma anche per il pensiero liberale. 

La perdita di competitività del continente è innegabile, come dimostrato dall'assenza di aziende europee leader in settori strategici a livello globale rispetto a trent'anni fa. 

Il piano di Draghi mira a colmare questo divario attraverso investimenti nell'innovazione, nella decarbonizzazione sostenibile e nella riduzione delle dipendenze da fornitori di materie prime e tecnologie strategiche. 

Ma questo approccio porta ad una riflessione su quale modello di allocazione delle risorse l'Europa stia effettivamente seguendo.

Il punto centrale (ma nascosto) della proposta Draghi riguarda l'evoluzione dell'allocazione delle risorse in una economia “occidentale”. 

Mentre il libero mercato ha storicamente guidato l'allocazione del capitale in molti paesi occidentali, il piano di Draghi sembra favorire una forma di dirigismo economico, in cui lo Stato assume un ruolo centrale nell'indirizzare gli investimenti verso settori considerati strategici. 

Questa tendenza, già osservata durante la pandemia, risponde a una necessità di protezione delle industrie strategiche domestiche in un contesto globale sempre più competitivo, dove potenze come gli Stati Uniti e la Cina adottano pratiche che possono essere viste come esempi di comportamento da "free rider". 

Draghi affronta finalmente il problema del “free riding”, proponendo una politica industriale attiva che tenta di contrastare l’asimmetria nella concorrenza globale.

Tuttavia, questo approccio solleva preoccupazioni sulla razionalità e l'efficienza dell'allocazione delle risorse. 

Se da un lato una politica industriale può essere giustificata in un contesto economico "unfair", come quello che caratterizza il commercio globale odierno, dall'altro rischia di introdurre distorsioni nel lungo periodo. 

L'intervento dello Stato ha storicamente favorito settori meno competitivi ed efficienti, che beneficiano del sostegno politico piuttosto che di una reale capacità di innovazione e crescita. 

Il rischio quindi è che la politica prenda il sopravvento sull'efficienza economica, con effetti deleteri sulla competitività complessiva dell'economia europea di lungo periodo.

In queste condizioni necessariamente la maggior parte dei fondi per il piano Draghi sarà raccolta attraverso il debito pubblico, con le legittime preoccupazioni che derivano sulla sostenibilità nel lungo termine. 

Se è vero che una maggiore crescita potrebbe rendere il debito più sostenibile, è altrettanto vero che non ci sono certezze su questo fronte e una parte dei paesi dell’UE non è propensa ad accettarne i rischi derivanti: un aumento incontrollato del debito potrebbe esporre l'Europa a crisi finanziarie future e alla svalutazione della valuta, con conseguenze negative per l'intera economia. 

Alla luce di queste considerazioni, è chiaro che il rilancio della competitività europea deve passare attraverso una maggiore presenza dello Stato nell'economia e la definizione di politiche industriali e tramite il ricorso al debito pubblico. 

Questo approccio sebbene si discosti dalla tradizione liberale classica rappresenta una sorta di "second best" paretiano, una soluzione che pur non essendo ottimale, è la migliore disponibile nelle attuali condizioni di mercato globale. 

La vera sfida sarà quella di trovare un equilibrio condiviso tra la necessità di sostenere settori strategici e l'esigenza di mantenere un certo grado di efficienza e razionalità nell'allocazione delle risorse.

In conclusione, il piano di Draghi rappresenta un tentativo di adattare l'Europa alle nuove dinamiche globali, ma solleva interrogativi su quanto l'intervento statale possa influire negativamente sull'efficienza economica. 

Se da un lato è indispensabile una risposta alle politiche di USA e Cina, dall'altro occorre vigilare affinché la politica economica non diventi dirigismo e alibi per scelte inefficienti. 


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