, Cellino Associati SIM, Cellino e Associati SIM
L’uomo, secondo alcuni eminenti psicologi, è fisiologicamente portato ad investire in asset a bassa volatilità*. Un anno fa scrivevo: “Secondo la Finanza Comportamentale, mediamente, la perdita di una somma è percepita come doppiamente dolorosa rispetto al guadagno del medesimo importo.”.**
http://epsilon-intervallo-grande.blogspot.com/2009/02/azioni-e-motori-gioie-e-dolori.html
Sebbene non sia l’unica regola di cui tenere conto, è tra le più immediate e quindi permette a tutti di iniziare a pensare in modo critico alle proprie reazioni ed ai propri atteggiamenti di investimento.
Per esercitarci proviamo a fare, sulla sola base di questa ipotesi, il bilancio emotivo dell’investitore che ha comperato l’azione X e che ne osservi quotidianamente l’andamento per un mese.
Immaginiamo per semplicità che il corso dell’azione sia privo di trend, ovvero che si muova casualmente oscillando intorno al prezzo di acquisto.
Dopo un mese, se i pesi delle emozioni positive e negative fossero uguali, il nostro investitore dovrebbe essere tutto sommato tranquillo: non sta perdendo, quindi non dovrebbe soffrire molto.
Ma le emozioni non hanno lo stesso peso. Nel giro di un mese lavorativo l’investitore avrà totalizzato circa 10 variazioni negative e 10 positive: il bilancio materiale dell’investimento è sulla parità, ma quello “emotivo” sarà (10 emozioni positive +10 *2 emozioni negative) = -10!
Ovvero dopo un solo mese in cui l’azione, tra l’altro, non è andata male, il nostro investitore è già di malumore.
Generalizzando appena un po’ possiamo affermare che le nostre sensazioni sull’investimento effettuato dipendono dal momento di ingresso, dalla sequenza degli eventi sui mercati, dall’arco temporale e dalla frequenza nell’acquisizione delle informazioni. Possiamo quindi affermare che c’è una relazione molto lasca tra il nostro sentimento e l’andamento oggettivo degli investimenti.
Facciamo adesso un passo avanti, affermando che il dolore della constatazione di una perdita è bilanciato da (almeno) un altro fattore: ovvero se la perdita è avvenuta sul “capitale” o sugli “interessi”.
Il dolore è più acuto se si perde sul capitale iniziale; meno se sono colpiti gli interessi.
Il fatto è che anche la percezione di cosa sia “capitale” e cosa siano “interessi” è variabile.
Per ragioni ataviche il cliente medio tende a chiudere il bilancio degli investimenti ogni anno, anche quando ha scientemente sottoscritto un contratto pluriennale. Così negli anni favorevoli, in modo inconsapevole, incorpora al proprio capitale una plusvalenza “intermedia”, sentendola invece “definitiva”. Ma se al contrario nell’anno concluso si è registrata una perdita, il capitale iniziale per l’esercizio successivo non viene decurtato, resta quello dell’anno precedente ancora.
Pertanto un’”ottica emotiva” annuale ci espone alla volatilità dei mercati, acquisendo come definitivi dati parziali favorevoli, e rigettando quelli negativi.
In questo modo l’investitore riesce a soffrire soffre anche in caso di andamenti pluriennali sostanzialmente positivi, poiché l’unica funzione che soddisferebbe l’ego dell’investitore (definito “miope” in letteratura) è una funzione monotona strettamente crescente!
Gli assicuratori hanno capito molto bene questo aspetto dell’animo umano e offrono polizze ad elevato contenuto finanziario che spesso - dal punto di vista dell’efficienza - fanno pena, ma che hanno il formidabile fascino di “consolidare” il risultato ottenuto a fine anno, per la felicità dei clienti ma soprattutto dei venditori.
*Mi limito in questa sede a ricordare che c’è tuttavia una minoranza di soggetti che si comportano in modo opposto.
** Questo è solo uno degli assunti della teoria che è molto più articolata, quindi le conclusioni alle quali perverremo, seppure ritengo siano sostanzialmente corrette, potranno sembrare contestabili: chi lo desidera può utilmente approfondire l’argomento leggendo Kahneman, Tversky, Motterlini, Ligrenzi, Rigoni ed altri.
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