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lunedì 30 giugno 2025

Cosa differenzia un investitore di successo da uno amatoriale? La forma mentis.


Vincere non è soltanto una questione di competenze tecniche o di accesso a informazioni esclusive.
Uno degli elementi meno considerati – ma più determinanti – per ottenere risultati solidi e duraturi è la forma mentis, ovvero il modo in cui l’investitore interpreta e affronta le dinamiche dei mercati finanziari.

Il ruolo della psicologia negli investimenti

Molti investitori – in perfetta buona fede – credono di puntare unicamente al rendimento: pensano che, se l’investimento farà guadagnare, saranno soddisfatti; altrimenti, saranno scontenti.

L’esperienza sul campo, però, racconta qualcosa di diverso:

  • esistono clienti che guadagnano bene ma sono comunque insoddisfatti;

  • altri che accettano con serenità una perdita;

  • altri ancora che non ottengono un rendimento significativo e sono comunque contenti.


Come si spiega questa apparente contraddizione?

La chiave è nella capacità del consulente di comunicare: interpretare la situazione e allinearla alle aspettative emotive del cliente.

Non è raro che una persona creda di essere interessata solo al rendimento, quando in realtà cerca altro: sicurezza, conferme, senso di controllo, oppure perfino emozioni forti.

Questo “altro” elemento si radica nella soggettiva concezione del piacere. Come ben intuiva Epicuro, tutti cerchiamo il piacere, ma lo facciamo in forme diverse.

Quando il cliente è contento (o scontento)

Per rappresentare visivamente la relazione tra comunicazione, rendimento e soddisfazione del cliente, possiamo usare un semplice schema a due assi:

  • Asse orizzontale: Capacità di comunicazione del consulente

  • Asse verticale: Capacità di generare rendimento (inteso come rendimento adeguato rispetto al rischio)

Ne derivano quattro scenari possibili:

  1. Alto rendimento + buona comunicazione → Cliente contento

  2. 😠 Alto rendimento + scarsa comunicazione → Cliente che brontola

  3. 🙂 Scarso rendimento + buona comunicazione → Cliente comunque soddisfatto (sei sicuro di non essere qui?)

  4. Scarso rendimento + scarsa comunicazione → Cliente insoddisfatto


Il punto centrale è che il guadagno deve essere “giusto”, cioè proporzionato al rischio sostenuto.

Ma la percezione del rischio da parte dell’investitore amatoriale è spesso distorta o lacunosa.

Il rischio e la sua percezione

L’investitore non professionista ha una visione del rischio differente da quella del professionista – e, di conseguenza, si comporta in modo diverso e più vulnerabile.

Tende, ad esempio, a concentrare eccessivamente il portafoglio su pochi titoli. 

Perché?
Percepisce maggiormente la fatica di gestire un portafoglio ampio, rispetto al rischio – ben più concreto ma meno visibile – di detenere un portafoglio concentrato.

Si creano così situazioni di confidenza illusoria e sovraesposizione.

Un caso tipico: si ritiene che un portafoglio obbligazionario con pochi titoli sia sicuro “per definizione”.

Ma episodi come Parmalat e Argentina ci ricordano quanto questa convinzione sia fragile.

Quando il rischio si concretizza, il comportamento classico dell’investitore amatoriale è:

  • attribuire la colpa all’esterno (alla banca, alla sfortuna, al complotto);

  • e, in caso di guadagno, attribuirsi il merito.

Questo è un bias cognitivo noto: si chiama bias dell’autocompiacimento (self-serving bias).

La mente umana tende a ristrutturare il passato per confermare la narrazione: “era evidente che sarebbe andata così”.

Il rischio e il senno di poi

Un altro classico esempio di distorsione cognitiva è rappresentato da certi articoli di giornale che celebrano retrospettivamente i rendimenti di titoli come Apple.

È vero che un investimento di 100.000 dollari in Apple nel 1998 oggi varrebbe milioni.
Ma si dimenticano dettagli fondamentali:

  • Nel 1998 Apple valeva 15 centesimi ed era considerata in declino.

  • Nel 2000 era salita a 1,15 dollari, ma nel 2002 era crollata di nuovo a 30 centesimi (–75%).

  • Dal massimo del 2024 a oggi, il titolo ha perso circa il 20%.

Chi avrebbe avuto la forza emotiva di rimanere investito, sopportando una perdita del 75%, soprattutto se quei 100.000 dollari rappresentavano tutto il proprio patrimonio?

Eppure, col senno di poi, tutto appare chiaro. È il ben noto hindsight bias, la tendenza a giudicare le decisioni passate come ovvie dopo averne visto l’esito.

Conclusione (provvisoria)

La prossima volta definiremo meglio cosa è il rischio. Per adesso osserviamo che

- è la corretta percezione del rischio il vero discrimine tra investitori di successo e gli investitori amatoriali.

- L’investitore di successo ottiene un aiuto dal suo professionista non solo per la parte tecnica ma anche per l’educazione alla corretta percezione delle dinamiche di mercato e alla loro relazione con le proprie emozioni.

- L’investitore di successo comprende l’essenza del rischio e il suo ruolo, i propri bias cognitivi e il ruolo del consulente nel processo d'investimento.

- Per guadagnare in modo consapevole e sostenibile il consulente di un investitore di successo non ha solo un ruolo tecnico, ma anche educativo e psicologico.

Se vuoi approfondire come costruire un portafoglio adatto alla tua forma mentis, scrivimi.


lunedì 23 giugno 2025

Private Equity: perché ne parlano tutti e cosa deve sapere davvero un investitore


È davvero il momento giusto per il private equity? Oppure c’è qualcosa che non torna?

Negli ultimi tempi il private equity è tornato al centro del dibattito. Sempre più consulenti lo propongono anche a piccoli risparmiatori, presentandolo come un’opportunità unica per diversificare il portafoglio e ottenere rendimenti superiori a quelli dei mercati quotati. 

Ma siamo sicuri che sia davvero così?

Cerchiamo di capire, senza tecnicismi, di cosa si tratta, quali sono le condizioni in cui il private equity funziona bene e perché la sua improvvisa “democratizzazione” potrebbe non essere una buona notizia per chi investe con il proprio patrimonio personale.

Cos’è il private equity (e perché promette tanto)

Il private equity è una forma di investimento in aziende che non sono quotate in borsa. In pratica, i gestori raccolgono soldi da investitori e li usano per comprare società non quotate, spesso con l’obiettivo di farle crescere, o ristrutturarle o alla quotazione.

Finora è sempre stato un gioco per pochi: fondi pensione, grandi banche, famiglie con patrimoni importanti. Il motivo? Serve capitale paziente, visione di lungo periodo e accettare che i soldi saranno bloccati per molti anni.

Quando il private equity funziona (e quando no)

Il rendimento del private equity può essere molto interessante, ma solo in certi contesti economici. I principali fattori da tenere d’occhio sono tre:

1. Tassi di interesse bassi:
Questi investimenti si basano spesso sull’uso del debito. Se i tassi sono bassi, il costo del capitale è contenuto e le operazioni rendono di più. Ma oggi i tassi sono molto più alti rispetto agli ultimi dieci anni, e questo incide sulle prospettive.

2. Cambio euro-dollaro stabile:
Molte delle aziende acquisite, o delle exit (uscite), avvengono negli Stati Uniti. Se il cambio EUR/USD è instabile, i ritorni possono risentirne. Un euro troppo forte, ad esempio, riduce il valore finale dell’investimento in dollari.

3. Economia prevedibile e stabile:
Le strategie di private equity richiedono tempo. Se l’economia è in crescita moderata e senza scossoni, le aziende acquisite hanno più possibilità di crescere e generare valore. Ma se ci sono recessioni improvvise o inflazione alta, i piani rischiano di saltare.

Insomma: il private equity funziona bene con condizioni macro favorevoli. E oggi, onestamente, non è detto che ci siano tutte.

Perché il private equity viene proposto oggi anche ai piccoli investitori?

Qui viene il punto più delicato. Molti colossi della gestione – da BlackRock a KKR – stanno spingendo sul private equity anche per clienti retail. Sembra un’idea interessante: offrire ai risparmiatori le stesse opportunità dei grandi fondi. 

Ma c’è un rovescio della medaglia.

1. I tuoi soldi restano bloccati per anni:
Si tratta di fondi illiquidi: non puoi uscire quando vuoi. Se hai bisogno del capitale, potresti trovarti in difficoltà.

2. Costi alti e poca trasparenza:
Le commissioni sono molto alte e spesso mancano informazioni dettagliate su come vengono scelti gli investimenti.

3. Chi guadagna davvero?
Secondo diversi analisti, i fondi migliori continuano a essere riservati agli investitori istituzionali. I prodotti “aperti” al pubblico spesso includono operazioni meno redditizie, o più rischiose.

4. Perché proprio ora?
Un sospetto legittimo: se oggi c’è tanto interesse a coinvolgere il pubblico, forse è perché le raccolte istituzionali stanno rallentando. E quindi si cercano nuove fonti di capitale, magari per avvicendare i grandi che sono desiderosi di uscire (in tempo?).


Il private equity può essere una leva potente per generare rendimento, ma non è per tutti e non in tutte le fasi di mercato

Prima di investire, è fondamentale capire bene i tempi, i rischi e la struttura del prodotto. E, soprattutto, capire cosa si potrebbe celare dietro ad una moda. 


lunedì 16 giugno 2025

Portafoglio in successione. Vendo o non vendo?


Un caso concreto: esploriamo insieme le domande che mi ha fatto un cliente.


Adalberto ha sempre fatto investimenti da solo. Adesso però, consapevole dell’approssimarsi della fine della sua vita, si è rivolto a me perché voleva che prendessi le redini del suo patrimonio e in seguito affiancare la sua compagna, sensibilmente più giovane. E voleva anche capire come organizzare nel modo più efficiente la sua eredità.


La situazione: 

la sua erede non ha alcuna parentela con lui e non ci sono familiari che abbiano diritto ad una quota di legittima. Il patrimonio di un milione di euro è costituito da

  • Azioni: 500.000 €

  • Titoli di Stato italiani: 450.000 €

  • Liquidità: 50.000 €


Il valore iniziale delle azioni era di 300.000 €, quindi la plusvalenza maturata è pari a 200.000 €. Il suo primo pensiero era stato di vendere le azioni e reinvestire tutto in BTP, che sono esenti da imposta di successione secondo l’art. 12 del D.lgs. 346/1990.

Abbiamo quindi fatto due ipotesi. Vendere e non vendere le azioni.  

Aspetti fiscali da considerare

1. Tassazione del capital gain

Vendere azioni in vita significa realizzare la plusvalenza: in questo caso, 200.000 €, soggetti a una tassazione del 26%.
Imposta da pagare: 52.000 €

2. Esenzione dei Titoli di Stato

I BTP italiani non concorrono alla base imponibile ai fini dell’imposta di successione.
Questo rende l’investimento in titoli di Stato interessante per chi vuole abbattere il carico successorio.

3. Aliquota per eredi non parenti

Nel caso in esame, l’erede non ha legami di parentela. Questo comporta:

  • Nessuna franchigia

  • Aliquota dell’8% su tutto ciò che non è esente

Scenari a confronto

📉 Scenario A – Vendita in vita e reinvestimento in BTP

  1. Vendita azioni: si realizzano 200.000 € di plusvalenze
    → imposta: 52.000 €

  2. Reinvestimento: 448.000 € in BTP

  3. Alla successione, il patrimonio è composto da:

    • 448.000 € di BTP (nuovi)

    • 450.000 € di BTP (già esistenti)

    • 50.000 € liquidità

  4. Imposta di successione solo su 50.000 € di liquidità
    → 8% = 4.000 €

Totale imposte da pagare: 52.000 € + 4.000 € = 56.000 €

📈 Scenario B – Nessuna vendita, tutto in successione

  1. Le azioni passano all’erede con il valore di mercato (step-up fiscale a 500.000 €)
    nessuna imposta sul capital gain

  2. Imposta di successione sul patrimonio imponibile (1.000.000 € - 450.000 € BTP esenti = 550.000 €)
    → 8% su 550.000 € = 44.000 €

Totale imposte da pagare: 44.000 €

Risultato: conviene non vendere

La strategia fiscalmente più efficiente è non vendere. La normativa prevede che, in caso di successione, il valore di carico fiscale delle azioni si aggiorna al prezzo di mercato al momento della morte (“step-up”).
Questo significa che le plusvalenze non si ereditano: l’erede potrà in futuro vendere le azioni senza dover pagare tasse sul capital gain maturato dal de cuius.

Mini guida pratica per vuole progettare una successione 

Ecco i punti da verificare prima di decidere se vendere o meno i propri investimenti:

  1. Valutare la composizione del patrimonio: azioni, obbligazioni, liquidità, (immobili).

  2. Considerare chi è l’erede e se ci sono altre figure che sono tutelate per legge (ma nel testamento valutare anche l’evenienza pittoresca e non così rara per patrimoni importanti che eventuali figli possano comparire inaspettatamente) 

  3. Analizzare le plusvalenze latenti: quanto si è guadagnato nel tempo?

  4. Conoscere le aliquote applicabili: 4% per coniugi e figli, 6% per fratelli, 8% per estranei.

  5. Valutare caso per caso se lasciare tutto in successione, approfittando dello step-up fiscale e della esenzione offerta dai Titoli di Stato.
    Una corretta pianificazione può fare la differenza tra pagare 44.000 € o 56.000 €.

In questo caso specifico il punto di indifferenza si trova a circa un guadagno del 50% sulle azioni. Se si guadagna meno conviene vendere in vita, se si guadagna di più conviene ereditare.

📍 Se ti trovi in Piemonte o nel Nord Ovest, e hai un patrimonio finanziario sopra i 200.000 €, possiamo valutare insieme la tua situazione.
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