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martedì 29 luglio 2025

La lotta per il controllo della FED e le conseguenze per gli investitori

Dietro le cronache economiche di questi mesi si nasconde una battaglia silenziosa ma cruciale: il tentativo da parte di Donald Trump e dell’area MAGA di mettere sotto controllo diretto la Federal Reserve. Non è una questione tecnica o da economisti: è una partita di potere che può riscrivere l’ordine economico globale.

Perché Trump vuole la FED

Per Trump, la Fed rappresenta molto più di una banca centrale: è una leva geopolitica. In prospettiva MAGA, l’indipendenza della Fed è un ostacolo al controllo pieno della politica monetaria e quindi del potere esecutivo americano. L'obiettivo politico è chiaro: concentrare il potere economico e decisionale nelle mani della Casa Bianca, anche a costo di sacrificare la stabilità del dollaro come valuta globale di riferimento.

La conseguenza più concreta? Trasformare dollaro e Treasury Bond da strumenti neutrali di mercato a veri e propri strumenti di potere politico. Questo scenario cambierebbe radicalmente il posizionamento degli asset considerati "sicuri" su scala mondiale.

Il rischio di un’economia come strumento di guerra

Anche senza guerre combattute sul campo, la competizione economica diverrebbe uno degli strumenti principali di conflitto. Lo abbiamo già visto con la Russia: dopo l’invasione dell’Ucraina, i titoli di Stato e molte attività finanziarie russe sono stati semplicemente congelati o resi non negoziabili nei mercati occidentali. Gli asset possono smettere da un giorno all’altro di essere “sicuri” per ragioni puramente politiche.

Ora, se il dollaro diventasse percepito come un’arma della politica estera USA e non più come una valuta neutrale, si aprirebbe una nuova fase di “guerra economica fredda”, dove ogni Paese cercherebbe di limitare la propria esposizione a potenziali strumenti di ricatto finanziario. Questo spiegherebbe il crescente interesse globale verso alternative come l’oro fisico, lo yuan o altre riserve di valore.

In questo contesto, chi investe deve ripensare la definizione stessa di “asset rifugio”.

Cosa fare: evitare la concentrazione e leggere il quadro normativo

Per gli investitori il problema non è solo economico: è strategico. Due le implicazioni pratiche:

1. Evitare la concentrazione dei safe asset.
Dare per scontato che Treasury Bond o dollari rimangano per sempre “rifugi sicuri” è oggi un errore. Come dimostra la guerra in Ucraina, la geopolitica può trasformare asset sicuri in strumenti bloccati o ostili. Diversificare geograficamente e valutariamente non è più un consiglio prudenziale: è una necessità.

2. Valutare il quadro normativo di ogni asset.
Non basta più guardare al rendimento atteso o alla volatilità. Il quadro regolatorio è una variabile di rischio concreta. La storia recente dei cantieri immobiliari bloccati a Milano lo dimostra: investimenti considerati solidi possono essere azzerati da un improvviso caos normativo. È il rischio invisibile, il “cigno nero” che molti trascurano. E il settore immobiliare non è l’unico: il far west normativo delle criptovalute è un altro esempio lampante.

In sintesi, l’illusione di investire in “beni rifugio” può crollare quando si sottovaluta il contesto regolatorio e politico dell’asset.

In sintesi

La battaglia in corso per il controllo della Fed non è una questione americana. È una linea di faglia potenzialmente globale. Se il dollaro diventa un’arma, la finanza internazionale diventa il campo di battaglia.

Per gli investitori, l’unica difesa è adottare una strategia realmente globale e vigilare sul quadro normativo di ogni asset.

Chi investe oggi, investe anche nella certezza delle regole.

Valutiamo insieme anche la solidità normativa di ogni tuo asset. Non è prudenza: è sopravvivenza finanziaria.


lunedì 28 luglio 2025

L’Europa senza gli USA: il sequestro dei fondi russi come arma geopolitica ed economica

Tra ricostruzione dell’Ucraina e guerra valutaria, Bruxelles potrebbe sfidare Mosca e Washington in un solo colpo.

Nel cuore della burocrazia europea, un’idea potenzialmente esplosiva inizia a prendere forma: trasformare il patrimonio immobilizzato della Banca Centrale Russa — circa 200 miliardi di euro congelati nel sistema finanziario europeo — in un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina. Ma questa operazione, finora ritenuta troppo rischiosa e giuridicamente incerta, potrebbe diventare realtà in uno scenario che si va delineando con inquietante chiarezza: un’Europa pronta a muoversi in autonomia, senza l’ombrello militare statunitense e sempre più insofferente verso le guerre commerciali a stelle e strisce.

Due condizioni renderebbero politicamente percorribile una mossa che, fino a ieri, sembrava tabù:

  1. La percezione che l’Unione Europea possa reggere l’urto di una Russia sempre più logorata e isolata militarmente, anche senza l’intervento diretto di Washington.

  2. Il deteriorarsi strutturale dei rapporti transatlantici, con dazi, extraterritorialità legale e politiche valutarie aggressive che rendono sempre meno sostenibile l’alleanza economica con gli Stati Uniti.

Una mossa, due obiettivi strategici

Il sequestro definitivo dei fondi russi avrebbe un duplice valore: geopolitico ed economico.
Da un lato, si creerebbe un fondo immediatamente disponibile per finanziare la ricostruzione dell’Ucraina e, parallelamente, rilanciare l’economia europea con nuovi investimenti. Non si tratterebbe di aiuti da negoziare in Parlamento o di debito da contrarre: sarebbe, in sostanza, denaro "gratuito", già disponibile, pronto all’uso.

Dall’altro lato, l’effetto collaterale più interessante potrebbe rivelarsi il più strategico: l’indebolimento dell’euro sul dollaro — stimato tra il 3% e il 7% nel medio termine — agirebbe come un contrappeso naturale alla politica daziaria di Donald Trump. In altre parole, Bruxelles potrebbe giocare una contromossa sulla guerra commerciale americana, rendendo più competitive le esportazioni europee e meno dolorosi i dazi imposti da Washington. Un euro più debole, infatti, sarebbe un boomerang per la retorica trumpiana del "Make America Great Again", soprattutto negli swing states industriali.

Il precedente che fa tremare il sistema

Naturalmente, un sequestro definitivo di asset sovrani creerebbe un precedente dirompente. Se l’Europa può confiscare i fondi russi oggi, domani potrebbe fare lo stesso con quelli di qualsiasi paese non perfettamente allineato agli “standard democratici occidentali”. Questo è il vero timore che serpeggia nei ministeri delle finanze di mezzo mondo: la perdita di fiducia nello status dell’euro come valuta di riserva globale.

Tuttavia, l’impatto diretto sul sistema finanziario sarebbe, per ora, contenibile. I paesi africani non democratici potrebbero ritirare una quota delle loro riserve in euro — si stima tra i 25 e i 35 miliardi in due anni — ma si tratterebbe di un'erosione progressiva, non di un collasso. Cina e paesi del Golfo, i veri detentori di riserve estere colossali, resterebbero alla finestra, valutando costi e benefici di un eventuale disimpegno. Finché loro non si muovono, l’euro regge.

Una provocazione o una strategia?

Siamo di fronte a una provocazione politica o all'abbozzo di una nuova dottrina strategica europea? La risposta, forse, è entrambe. Il sequestro dei fondi russi diventerebbe un atto di rottura, certo, ma anche un gesto di autodeterminazione: l’Europa che smette di chiedere l’autorizzazione a Washington e inizia a costruire una propria postura geopolitica.

L’idea è audace, rischiosa, ma non priva di razionalità. In fondo, se Bruxelles crede davvero nella propria capacità di agire da potenza autonoma, la strada non può che passare anche da scelte scomode. Compresa quella di riscrivere le regole del gioco finanziario internazionale.

Il mondo guarderebbe con sgomento. Ma anche con rispetto.


lunedì 21 luglio 2025

Consulenza finanziaria: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”


Avete presente la famosa frase de “Il gattopardo”? Oggi la applichiamo all’industria del risparmio gestito.

Per anni i clienti si sono visti proporre solo fondi e prodotti della casa, cioè quelli emessi o distribuiti direttamente dalla banca o dalla rete di appartenenza. 

Un sistema che ha funzionato finché i risparmiatori si sono fidati. Quando però è emersa maggiore consapevolezza, anche grazie alle esperienze maturate,  molti hanno iniziato a dubitare. 

E così le banche hanno cambiato strategia: invece di proporre solo i propri fondi, hanno iniziato a distribuire prodotti di terzi, ma stipulando accordi di retrocessione, cioè accordi che riconoscevano una commissione alla banca.

In questo scenario la narrativa era: “abbiamo tutti i fondi del mondo a disposizione, così possiamo scegliere il migliore per te”. 

Ma la realtà era ben diversa. Non tutti i fondi garantivano lo stesso ritorno di retrocessione: alcuni pagavano di più, altri di meno. E così, inevitabilmente, la spinta commerciale andava - e tuttora va - verso i fondi con la commissione (l’inducement) più alta, che - inutile dirlo - non necessariamente sono quelli migliori per il cliente. 

In altre parole, la “consulenza” continua a essere condizionata da logiche di vendita.

Da un annetto circa anche questo modello sta mostrando la corda e il marketing ha “inventato” la consulenza.

Con la formula fee on top, si parla finalmente di consulenza e il servizio sembra gratuito. 

In realtà il compenso continua ad arrivare tramite i medesimi accordi di retrocessione di cui parlavo prima. Il conflitto di interessi resta identico: se non paga il cliente, paga qualcun altro, e quel qualcun altro condiziona la qualità e l’imparzialità del consiglio.

Il cliente più consapevole potrebbe allora scegliere la consulenza fee only, più trasparente perché priva di incentivi esterni, ma il costo diretto spesso scoraggia gli investitori meno esperti, che finiscono per preferire servizi apparentemente gratuiti.

Ma cosa più importante e ancora meno evidente è che esistono differenti livelli di professionalità nell’erogazione della consulenza fee only.

Vi potreste chiedere ad esempio quale sia il livello di conoscenza della piattaforma software fornita al consulente dalla banca: il rischio è di trovarsi di fronte ad un venditore che impersona un consulente. 

Infatti questi software propongono al consulente un portafoglio standard a fronte di un determinato profilo. Questo da un lato aiuta il commerciale a gestire le grandi masse di clienti, ma per contro limita la libertà e la profondità delle analisi: raramente i consulenti conoscono davvero le logiche i motivi ed i parametri con cui vengono generate le raccomandazioni di investimento.

La questione è cruciale: se un consulente ha molte decine o centinaia di clienti difficilmente avrà tempo e forze per studiare a fondo il dettaglio tecnico e le banche hanno un preciso interesse a non spiegare fino in fondo i meccanismi del software: un consulente troppo preparato e indipendente potrebbe essere tentato di costruirsi un proprio seguito di clienti. Meglio quindi tenerlo “dipendente” dallo strumento.

Il problema, in sostanza è la qualità reale della consulenza: la differenza tra il “sapere che” e il “sapere perché”. 

Un algoritmo, per quanto sofisticato, è stato programmato per funzionare mediamente bene ma serve la lucidità di un consulente esperto per capire quando è invece necessario intervenire.

Il rischio di fondo per il cliente è confondere la vendita di una “consulenza confezionata” con la consulenza. 

Per questo motivo chi vuole davvero gestire i propri risparmi in modo consapevole dovrebbe uscire dalla zona di comfort e chiedere una consulenza  fee only, dopo aver valutato la qualità del professionista. 

Ma questo è il destino di pochi. La massa apprezzerà il cambio del costume di scena.




Nella consulenza la vera differenza la fanno la consapevolezza del cliente e del consulente. 

Un consulente deve conoscere i propri strumenti, saperli interpretare, saperli eventualmente mettere in discussione. E il cliente, da parte sua, deve imparare a riconoscere i conflitti di interesse nascosti dietro la parola “consulenza”. 


lunedì 14 luglio 2025

La birra di Pasteur e la consulenza finanziaria.


In questo periodo di calura vi offro un aneddoto rinfrescante a base di birra, ma che ha dei risvolti finanziari: dimostra che il saper fare può portare al successo economico, ma potrebbe non bastare per fare bene il proprio lavoro, se non si è capito a fondo il motivo per cui una certa cosa la si deve fare proprio in quel modo.

Un ricco birraio, nella seconda metà dell'Ottocento, si rivolse disperato a Louis Pasteur. Il suo birrificio produceva d'inverno una birra eccellente, ma d'estate il prodotto spesso si inacidiva. 

L'uomo era perplesso: seguiva sempre le stesse procedure, eppure i risultati cambiavano con le stagioni. Pasteur analizzò il processo e scoprì che la causa non era nell'operato del birraio, bensì nell'assenza di consapevolezza del fenomeno della fermentazione. 

A quel tempo, i birrai sapevano fare la birra, ma sapevano perché: ignoravano il ruolo dei lieviti nella trasformazione degli zuccheri in alcol.

D'estate, le temperature più alte favorivano la proliferazione di lieviti selvaggi, che contaminavano il mosto prima che il lievito "buono" inoculato dal produttore potesse prevalere. 

Il risultato era una birra inacidita. La soluzione di Pasteur fu semplice ed efficace: sanitizzare meglio gli strumenti, cioè ridurre la carica microbica ambientale a livelli molto bassi, per dare un vantaggio competitivo al lievito selezionato. 

Il birraio imparò non solo a fare la birra, ma a capire perché ogni fase era cruciale.


La differenza tra capacità operativa e consapevolezza

Questo aneddoto mette in luce una distinzione fondamentale: quella tra il sapere fare (competenza operativa) e l'avere consapevolezza (comprensione teorica e critica del perché si agisce in un certo modo).

  • Sapere fare significa saper applicare una procedura con efficacia. L'operaio del birrificio, o il consulente che usa un software finanziario, sa quali passaggi eseguire.

  • Avere consapevolezza implica capire le cause e gli effetti delle scelte, prevedere le eccezioni, adattarsi ai cambiamenti. Pasteur aveva consapevolezza; il birraio solo capacità operativa.


Il parallelo con la consulenza finanziaria oggi

Nel mondo della consulenza finanziaria, molte grandi case di investimento forniscono ai propri consulenti software sofisticati, capaci di proporre portafogli, piani d'investimento e strategie apparentemente personalizzate. I consulenti vengono formati all'uso di questi strumenti, che funzionano in modo algoritmico.

Ma qui nasce il problema: il consulente sa cosa proporre, ma ha solo una vaga idea del perché. Non conosce i dettagli del motore logico dell'algoritmo, né le assunzioni su cui è stato costruito. 

In assenza di consapevolezza, non è in grado di valutare se le condizioni del mercato, o quelle del cliente, si discostano dai presupposti iniziali.

In altre parole, come nel birrificio, il rischio è che qualcosa vada storto. Magari in estate, o quando il presupposto dell’algoritmo va in crisi.


Un rischio implicito: l'automazione passiva

Un ulteriore aspetto critico per il cliente ma molto importante per le banche è che, nel caso di questi software, non c'è nemmeno bisogno di imporre "ordini di scuderia" ai consulenti. 

Basta programmare l'algoritmo in un certo modo, e tutti si allineeranno. Il consulente esegue, ma non decide. In questo senso, l'efficienza apparente maschera una perdita di libertà critica. E aumentando il numero di clienti che è possibile seguire si premierà chi fa più lavoro, e per lavorare di più è necessario allinearsi ai suggerimenti offerti dalla macchina. 


In che direzione vuoi andare?

Se ti interessa capire meglio ed avere un maggior controllo dei risultati allora evita un consulente che offre “consulenze in batteria”. Meglio uno che sappia davvero quali sono le conseguenze delle proposte che ti fa. 

Come Pasteur rispetto al birraio: non si limita a eseguire, ma sa osservare, interpretare e correggere.

Il sapere fare è importante e nell’industria si premia l’efficienza piuttosto che la consapevolezza. Questo atteggiamento, in un ambiente ripetitivo come la catena di montaggio di un veicolo è un bene. 

Ma l’industria degli investimenti opera in un settore radicalmente differente, l’economia e la finanzia sono scienze sociali. Il fattore umano conta. 

Sei pronto a scommettere il tuo portafoglio che non è la consapevolezza che fa la differenza? 

Se vuoi approfondire come scegliere un consulente davvero consapevole, scrivimi: ne parliamo volentieri.

#ConsulenzaFinanziaria #InvestimentiPiemonte #ConsapevolezzaFinanziaria


lunedì 7 luglio 2025

Investire con successo: la tecnica non basta (e ti spiego perché)

Come si fa a diventare investitori consapevoli anche senza essere esperti in finanza?


In questo secondo articolo torniamo sul concetto di forma mentis, già introdotto in precedenza, e vediamo come alcune convinzioni di buon senso – pur sembrando logiche – possano rivelarsi dannose se non accompagnate da una reale consapevolezza delle dinamiche di mercato e da un metodo solido.

Perché investire non è solo tecnica: è anche psicologia, comunicazione e capacità di restare lucidi quando il mercato mette alla prova.


Il rischio non è un nemico, ma il prezzo da pagare

Molti pensano che il rischio vada evitato. In realtà, se vogliamo parlare seriamente di rendimento, dobbiamo accettare che il rischio – inteso come oscillazione dei prezzi – è il pedaggio necessario da pagare.

Non si può pretendere rendimento senza assumersi rischio. Sembra banale, ma non lo è.

Il punto cruciale, però, è un altro: il rischio non è la perdita momentanea.
Per un tecnico, rischio significa deviazione rispetto al benchmark, ovvero rispetto al rendimento/volatilità che l’investitore può sopportare e che ha senso perseguire nel tempo.

Chi esce troppo presto da un investimento solo perché “sta guadagnando” in realtà rompe il ciclo virtuoso del rendimento.

È come fermare una catena di montaggio prima che il prodotto sia finito: si perde il valore potenziale ancora in costruzione.


L’illusione del porto sicuro

L’investitore amatoriale reagisce in modo più emotivo. Quando il portafoglio sale, considera quei guadagni “acquisiti”. Ogni discesa successiva, anche lieve, viene percepita come una perdita, anche se il saldo complessivo è ancora positivo.

Il risultato? Vendere troppo presto.
Spesso lo si giustifica con l’espressione “portare il fieno in cascina”: rassicurante, familiare… e quasi sempre dannosa.

Perché se il lungo periodo è solo una formula vaga e il desiderio di gratificazione immediata è più forte della pazienza, allora non si è davvero investitori, ma raccoglitori occasionali.

La comunicazione fa (davvero) la differenza

Dalla pratica quotidiana emerge una verità semplice: il cliente non si giudica solo dal rendimento, ma dal modo in cui vive l’esperienza.


Riprendiamo quindi la matrice già vista per sintetizzare quattro situazioni-tipo:

Consulente

Rendimento

Comunicazione

Esito per il cliente

A

Alto

Buona

Consapevolezza e fiducia: il cliente capisce, segue e resta investito

B

Alto

Scarsa

Fiducia fragile: il cliente si fida “per abitudine”, ma basta una crisi per farlo dubitare

C

Basso

Buona

Tranquillità apparente: magari usa strumenti come i PAC, spesso più utili a chi vende che a chi investe

D

Basso

Scarsa

Il cliente scappa, ma rimbalza tra proposte simili, prive di reale alternativa


E infatti, in un sistema bancario dove tutti offrono le stesse cose nello stesso modo, il cliente può solo illudersi di cambiare, restando sostanzialmente dentro gli stessi meccanismi.

Tre consapevolezze per diventare investitori migliori

Diventare investitori consapevoli è possibile, anche senza essere tecnici. Ma servono tre prese di coscienza fondamentali:

  • 📈 Il mercato cresce nel lungo periodo, ma solo se si è disposti ad aspettare. La fiducia va costruita su dati e processi, non su promesse.

  • 📉 La volatilità è la norma, non l’eccezione. Non è un errore del mercato, è il suo modo di funzionare.

  • 💸 Le commissioni occulte esistono, ed è lì che spesso si consuma la vera differenza tra rendimento per l’investitore e profitto per chi vende prodotti.

Conclusione

Non basta un buon prodotto. Non basta sentirsi soddisfatti. Serve un buon processo, una buona guida e una forma mentis adatta al viaggio.
Se vuoi approfondire come costruire un portafoglio coerente con la tua forma mentis, scrivimi qui.