Ribilanciare un portafoglio quando tutto sta andando bene può sembrare controintuitivo: significa vendere l’asset che sta salendo e comprare quello che sale meno, o addirittura scende. Risultato? Si guadagna meno. Ma in realtà si guadagna meglio.
Meglio, cioè in modo più stabile, più prudente, più coerente con i propri obiettivi e il proprio profilo di rischio.
Ma questo vale sempre? E soprattutto: ha senso farlo in modo automatico e regolare?
Cos'è il ribilanciamento e cosa cerca di ottenere?
Ribilanciare significa riportare il portafoglio alla sua asset allocation originaria.
Per esempio, se ho investito 50% in azioni e 50% in obbligazioni e dopo un semestre le azioni sono cresciute del 10% e le obbligazioni solo dell’1%, il peso azionario è diventato maggiore. Ribilanciare significa vendere parte delle azioni in guadagno e reinvestire in obbligazioni per tornare alla proporzione originaria.
L’obiettivo?
Limitare il rischio: evitando che una componente troppo volatile prenda il sopravvento.
Sfruttare la volatilità: vendendo in alto e comprando in basso, sistematicamente.
Tre esempi concreti: cosa succede al portafoglio
Ho simulato tre scenari con un portafoglio iniziale di 100.000 €, composto per il 50% da azioni e il 50% da BOT (obbligazioni a breve termine con rendimento semestrale dell’1%).
Ogni scenario dura due anni (quattro semestri). L’unica variabile è l’andamento del mercato azionario:
Scenario 1: Crescita a dente di sega – (+10%, -5%, +10%, -5%)
Scenario 2: Decrescita a dente di sega – (-10%, +5%, -10%, +5%)
Scenario 3: Orizzontale a dente di sega – (+10%, -10%, +10%, -10%)
Per ciascun caso, ho confrontato due strategie:
Portafoglio ribilanciato ogni semestre
Portafoglio lasciato invariato (buy & hold)
I risultati (valori finali dopo 2 anni)
Il ribilanciamento ha prodotto un guadagno leggermente superiore in ogni caso. Ma attenzione: questi risultati non tengono conto di due fattori fondamentali.
I limiti di un ribilanciamento automatico periodico
Nei casi che abbiamo simulato:
Non sono state considerate le spese di transazione (commissioni, spread)
Non è stata considerata la fiscalità (tassazione sulle plusvalenze in fase di vendita),
Il ribilanciamento è stato eseguito in modo meccanico e regolare, ogni semestre.
Nella realtà, queste voci possono erodere completamente il piccolo vantaggio apparente. Anzi, un ribilanciamento rigido può diventare controproducente se effettuato senza una logica legata al valore degli asset.
Quando ha davvero senso ribilanciare?
Ribilanciare solo per “tornare in equilibrio” può essere poco utile. Il vero punto è ribilanciare quando il prezzo si discosta troppo dal valore.
Quando il prezzo è molto superiore al valore (es. un’azione che corre su euforia), può essere saggio:
vendere parzialmente,
spostare verso asset meno volatili o sottovalutati.
Viceversa, se un asset scende sotto il suo valore intrinseco, e lo si conosce bene:
ha senso acquistarlo (magari con parte dei proventi di altri investimenti).
Ma per distinguere prezzo e valore serve competenza analitica, accesso ai dati e un metodo professionale.
Quindi: serve una strategia, non solo un algoritmo
Un ribilanciamento ben ragionato, adattato alla situazione di mercato e alla strategia del cliente, può fare una differenza concreta.
Ma solo se:
Tiene conto delle tasse e dei costi reali,
Valuta il valore intrinseco degli asset, e non solo le loro fluttuazioni di prezzo,
Si inserisce in una strategia complessiva di gestione del rischio e degli obiettivi.
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